PENSIERI ad ALTA VOCE ed in LIBERTA’ su una SANITA’ al PASSO coi TEMPI-2- (a puntate)
- salvatore
- 26 nov 2020
- Tempo di lettura: 4 min
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Cosa vogliono dire nella realtà e nella pratica (sempre secondo me) questi due principi per qualunque Ospedale?
Punto 1: In tempi precedenti, un pò in tutto il mondo, in certe nazioni più ricche diciamo forse fino a circa i famosi anni ’70, da noi qualche anno dopo, le nozioni di medicina, anche se già da tempo in via di rapido aumento e definizione, erano ancora relativamente contenute. Almeno in Italia quello che si conosceva e si poteva-doveva riconoscere, quindi diagnosticare e curare, con i mezzi dell’epoca, poteva abbastanza agevolmente essere gestito da ogni medico che si fosse ben preparato all’Università e quasi dovunque fosse capitato a lavorare.

Sottolineo cioè che qualunque medico, in qualunque ospedale, anche di piccole dimensioni, o grande ma più o meno sperduto, aveva la possibilità di incontrare, riconoscere ed affrontare gran parte della principale patologia nota (ovviamente anche allora professionalmente “avvantaggiato” risultava sicuramente chi lavorava in un grosso ospedale di una popolosa città, ma si trattava di minoranze di “luminari”). Se questo si pretendeva dal “dottore”, vuol dire che ogni paziente in definitiva poteva pensare di risolvere la propria malattia, se tra quelle conosciute, praticamente in qualunque luogo, potendo aspettarsi in qualunque ospedale, almeno statisticamente parlando, di trovare medici capaci del suo riconoscimento e della conoscenza delle allora non moltissime terapie più appropriate.

Oggi, Anno Domini 2020, non è più così. Non viviamo più in quella situazione, non è con un decisamente contenuto numero di casi che ciascun medico in qualsivoglia specializzazione può confrontarsi ed è chiamato ad agire, quanto con un elevato numero di pazienti che ormai presentano un’intricata quantità di segni, sintomi, dati, che si intrecciano e si sovrappongono in complicata maniera, risultando in quadri patologici sempre più complessi e difficili da interpretare perché sempre più specifici. Ed è necessario vederne un corposo numero per riuscire a districarsene.
Perché si propongono scelte incoerenti?
Di fatto nel non ammettere di dover affrontare una nuova realtà, la responsabilità è di molti, pazienti compresi. Possiamo coscientemente o incoscientemente barare per moltissime motivazioni in sottofondo, alcune delle quali anche umanamente comprensibili e ognuno può avere le proprie:
Possiamo forzare l’idea che tutto sia rimasto come in altri tempi, per sentirci in pace con la coscienza quando decidiamo di non faticare a modificare progetti che sappiamo non al passo con l’attualità (decisori politici o operatori sanitari). Ma ciò non sarebbe efficace per la salute pubblica.
Possiamo desiderare che vengano seguite decisioni che sappiamo non ottimali o addirittura superate ma che soddisfano in realtà altri nostri bisogni, tipo, banalizzo, la vicinanza a casa dell’ospedale in cui si lavora o a cui ci si riferisce come utente (pazienti o operatori sanitari). Ma non sarebbe efficace per la salute pubblica.
A scegliere possiamo farci guidare da sentimenti che nutriamo per posti ormai familiari, da paure suscitate in qualunque cambiamento, da nostalgie per luoghi di lavoro in cui ci muoviamo ad occhi chiusi (pazienti e soprattutto operatori sanitari). Ma non sarebbe efficace per la salute pubblica.
Possiamo orientarci verso un’opzione obsoleta se pensiamo così di ottenerne comunque una manciata di consensi elettorali in più o per maggiore visibilità sui giornali ed i social (decisori politici e simili). Ma non sarebbe efficace per la salute pubblica.
Invece quello che nella società moderna, almeno occidentale, garantisce oggi maggiormente la preparazione e la capacità di affrontare in teoria ogni patologia e quindi di ripristinare la salute “del malato”, l’elemento che di fatto rappresenta attualmente la maggiore certezza, se non di una precisa diagnosi finale, sicuramente di un corretto procedimento diagnostico e di una conseguente affidabile guida terapeutica, è declinabile con due semplici parole: ampia casistica.

Come già detto, attualmente le situazioni patologiche da dover riconoscere sono tante e come già detto con tante sfumature sintomatologiche. Si fa da tempo un gran parlare di terapia “personalizzata”, aggiungerei che in moltissime situazioni ormai c’è anche una sorta di diagnostica “personalizzata”. Si differenziano ovviamente perché la prima è subita dal paziente, la seconda è a responsabilità del medico ed entrambe funzionano solo quando c’é una perfetta conoscenza di quel tipo di malato e di malattia, ma una conoscenza così è conseguente non solo all’applicazione di protocolli studiati quanto alla cosiddetta esperienza, cioè entrambe risultano tanto migliori quanto maggiore è la casistica su cui si sono solidificate e poggiano.
In definitiva dunque, precipuo, insindacabile nel nostro tempo, unica garanzia di qualità e di modernità, ancoraggio agli aggiornati sistemi di terapia-assistenza è il concetto che “al di sotto di una certa casistica il sistema ospedale rischia fortemente di essere progressivamente fuori controllo dal punto di vista della efficacia e della sicurezza in tutta la sua attività o in aspetti specifici”. Queste sono caratteristiche, quasi da linee guida, lungo le quali si incanala o é già incanalata la sanità nelle nazioni più avanzate. Di conseguenza nelle decisioni organizzative non si può più prescindere dal chiedersi quale sia la probabilità che in un dato ospedale il personale sanitario si scontri e sia costretto ad affrontare quanti più aspetti patologici possibili legati alla propria specializzazione, e non posso prescindere da considerare indissolubile anche l’attività infermieristica di assistenza da quella medica di diagnosi e cura.

Non sono pochi, ormai nemmeno in Italia, gli studi e le ricerche che dimostrano come non sia possibile in sanità scendere al di sotto di certi numeri se non si vuole far rischiare qualcosa al paziente (e, consentitemi, al personale sanitario). Mi vengono in mente soprattutto due situazioni su cui si è spesso dibattuto anche in Valtellina: i punti nascita e l’emodinamica.
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